• ARTICOLO DI COSTIA •
L’irrompere sulla scena musicale internazionale di una nuova stella è generalmente annunciato da uno o due brani in cui si intravedono personalità, originalità, freschezza… confusi in un mazzetto di brani acerbi, ove il talento sembra dormire inconsapevole, fino a delle vere e proprie cantonate di cui spesso lo stesso artista finisce col vergognarsi qualche anno dopo.
Il venticinquenne inglese Nick Mulvey pare volersi fare beffe di tutti questi cliché, ed ha realizzato con “First mind” uno dei dischi d’esordio più maturi ed “esperti” degli ultimi anni.
Probabilmente è perché ognuno porta nella sua musica la propria esperienza, e il giovane Mulvey pare averne accumulata in un breve periodo a sufficienza per due o tre vite: basti pensare che a 19 anni era già a Cuba a studiare percussioni caraibiche e che al suo ritorno nella vecchia Europa si è iscritto a corsi di etnomusicologia africana ed orientale, per comprendere che la solida formazione musicale ricevuta tra le mura di casa (mamma pianista jazz, nonna cantante d’opera) gli è servita solo ad accendere una inesauribile passione per la musica ed una infinita curiosità per le varie “forme” che note e accordi possono prendere.
Tutta questa “sapienza” musicale avrebbe potuto produrre un “giovane vecchio” capace di creare brani incredibilmente colti… e parimenti barbosi, se non fosse stata sovrapposta ad un vero talento per melodie cantabili e dolcissime, e ad una innata capacità di trascinare al ballo con pochi accordi che avrebbe potuto farne una sorta di novello Battisti d’oltremanica.
Nitro e glicerina, insomma, Yin e Yang. Il risultato di questo mix è un insieme di canzoni originali in miracoloso equilibrio, che trascinano al primo ascolto ma che spingono poi a nuovi e più meditati approfondimenti.
Disco peculiare e familiare al contempo: un a-tipico disco di musica indie anglo-americana, ove la lezione del buon vecchio Sting va a braccetto con quella del giovane Michael Kiwanuka (autore a sua volta di un folgorante esordio due anni fa) e dove stilemi di Mark Kozelek convivono con lontani echi dei Men at Work. Il tutto mentre in sottofondo muovono riverberi e campanellini orientali, ed i ritmi assumano a volte la staticità ipnotica di certe ballate del deserto africano o l’indolenza tipica e nostalgica dei “lenti” brasiliani.
Un vero figlio moderno e scanzonato della world music, che ama parlare del processo creativo che porta alla composizione dei suoi brani come un percorso “dal furore creativo alla forma” (“Fever to the form” è appunto il titolo di uno dei brani di punta del disco).
Tanto lavoro di rifinitura armonica ed una ricerca di ritmi insoliti al servizio di melodie di estrema orecchiabilità: è questo il biglietto di presentazione di quella che si si propone come una possibile vera sorpresa dell’anno, sia per il pubblico che per i critici (la BBC lo ha menzionato come maggiore promessa dell’anno).
L’altra caratteristica che colpisce all’ascolto di “First mind” è il livellamento qualitativo verso l’alto: quasi tutti i brani hanno lo stesso impatto e paiono nati per diventare potenziali singles, e non si registrano quasi mai cadute di tono.
Mulvey sembra avere uno stile già definito e maturo, ed è in grado di personalizzare tutte le sue mille influenze esterne senza farsi impressionare.
Solo il tempo dirà se si tratta di una proposta nata già compiuta ed incapace di aggiornarsi o se siamo davvero in presenza del folgorante avvento di un nuovo talento pronto a stabilirsi per i prossimi anni nelle nostre “casse”.
Per ora, la cosa migliore è lasciarsi trasportare dalle calde onde di queste melodie dolcissime e sognanti, e ballare ai ritmi trascinanti ed a volte irregolari di questo giovane cantautore intercontinentale.