ARTISTA DEL MESE: GHOSTPOET/KATE TEMPEST

Nella storia del rock convivono e si agitano, a volte scontrandosi, musica colta e musica popolare, brani fatti per ballare dopo aver posato il cervello sulla sedia ed altri in grado di soddisfare menti aduse ad utilizzo di neuroni d.o.c.
Uno dei motivi di fascino di questa musica è anzi la sua infinita capacità di metabolizzare fenomeni di qualsiasi “altezza” e tipo: ogni tanto qualche artista riesce ad emergere proponendo una lettura colta delle note e “tirando” verso l’alto la bandiera del rock, ma si può essere sicuri che prima o poi le sue idee verranno liofilizzate e rese digeribili per un pubblico più ampio, da qualche epigono più furbo, fino a divenire parte della grande corrente principale di questo immaginario fiume detta “mainstream”.
Più affascinante è, quando accade, il fenomeno contrario: qualsiasi stile, moda, modo di cantare nato come popolare e “basso” viene prima o poi nobilitato da uno o più artisti che ne utilizzano gli schemi per una lettura colta e originale del rock. E’ successo alla musica regionale in Italia, con risultati a volte spettacolari, ed all’estero al blues ed al mille altre tendenze “pop” e di rottura.
Non sorprende dunque che la stessa sorte tocchi ora al rap, genere nato dai ghetti delle periferie statunitensi come non-musica fatta di parole improvvisate e slogan sparati a tutta velocità nel microfono su basi musicali casuali e pre-registrate.
Il tipo di musica, insomma, ad alto tasso di adrenalina e zero di riflessione, caratteristiche che avrebbero dovuto tenere lontano qualsiasi rocker con velleità intellettualistiche.
Eppure anche il rap è divenuto pian piano musica impegnata: dapprima un pugno di parolieri abilissimi hanno cominciato a “rappare” testi difficili, impegnati e veri e propri proclami politici (in Italia, un precursore del genere è stato Frankie HiNRG, che ha scritto testi splendidi raggiungendo un successo notevole; oggi Caparezza è il portabandiera di questa tendenza).
Oggi l’ultimo tassello che mancava al rap per accedere al salotto buono sembra essere stato aggiunto: alcune nuove proposte inglesi abbinano al modo di cantare tipico dei ghetti, oltre a testi sferzanti e raffinati, una inedita ricerca dei suoni, sofisticata e che sembra diretta discendente del Bristol sound (Portishead, Massive Attack, ma soprattutto Tricky).
Atmosfere cupe, ritmi lenti e profondi, su cui la voce ricama storie tra il cantato ed il parlato (in un certo senso questa recensione è la prosecuzione del “LOSAPEVI? 40# CANZONI PARLATE: QUANDO IL ROCK DIVIENE PROSA).
Ve ne presentiamo due: recensione doppia per la fine del 2017, una sorta di tredicesima musicale!
Enjoy it!

GHOSTPOET

Ghostpoet wikipedia

Il primo e più eclatante esempio che vi proponiamo è un artista inglese che ha scelto lo pseudonimo di Ghostpoet (il vero nome è  Obaro Ojimiwe).

E’ lui l’autore della possibile trasformazione del rap in musica colta, in modi che sino a poco tempo fa sembravano impensabili.
Ghospoet ha all’attivo ben cinque album, sfornati nel breve lasso di tempo di sei anni (una cadenza annuale, un tempo comune nel rock, oggi assai rara, che testimonia vitalità espressiva).Già dal primo, pur in un mood molto più simile ad alcune composizioni classiche del rap, si intuiva il potenziale di un bel talento musicale, una cura per l’arrangiamento rara negli adepti del genere, unita a testi ricercati e graffianti: lo stesso titolo dell’album, “Peanut Butter Blues and Melancholy Jam” (“tristezza al burro di arachidi e marmellata di malinconia”; ma la traduzione non riesce a rendere il doppio senso contenuto nella frase, che contiene termini  – blues e jam – che in ambito musicale hanno tutt’altro significato, tanto che è possibile una traduzione alternativa della stessa frase in “blues al burro di arachidi e improvvisazioni di malinconia” ) mal si concilia con i classici proclami urbani dei rappers. I suoni industriali e per lo più elettronici accompagnano uno stile vocale tra il cantato e il parlato, molto lento e quasi strascicato, che diverrà il marchio di fabbrica dell’autore. Il disco ha un successo enorme, soprattutto il brano “Survive it”, che diviene un vero e proprio tormentone (su Spotify ha quasi cinque milioni di ascolti, per cui se non l’avete mai sentita… è colpa vostra! Ma noi siamo qui per aiutarvi: eccola in una splendida e sognante versione dal vivo, durante il programma “Later with Jools Holland”.  Ecco invece la versione in studio).
Il testo è a suo modo rivoluzionario: nessun orgoglio del ghetto o esaltazione delle violenza, nessun machismo urbano, temi tanto cari ai rappers, ma al contrario una disperata presa d’atto della propria mediocrità e dell’incapacità di uscire da un contesto degradante, in gran parte per proprie colpe e per quella specie di autocompiacimento che prende i deboli e abbassa le pretese fino a desiderare solo una quieta sopravvivenza: una sorta di Creep della Londra moderna; il nuovo cantore della scena weird è arrivato. Ed è solo il debutto: passano gli anni, velocemente, e Ghospoet matura album dopo album, sviluppando uno stile inedito e tutto suo.
Lo stile vocale si affina, in quella terra di nessuno tra il soliloquio e il canto, il timbro diviene più profondo e incisivo, le melodie chiedono spazio: negli ultimi due album, “Sheddins Skin” del 2015 e il recentissimo “Dark days + Canapès” uscito qualche settimana fa, possiamo ascoltare una sorta di cantautore moderno. “Sheddin Skins” si avvale peraltro di collaborazioni eccellenti della scena londinese ed europea, che arricchiscono l’impatto dei suoi brani: in “X marks the Spot” gli fa da contraltare la fascinosissima Nadine Shah, uno dei talenti più fulgidi oggi in circolazione (di cui abbiamo parlato in un Losapevi dedicato alla femminilità torbida nel rock: qui!), al cui stile il nuovo Ghostpoet tende ad assomigliare. Ecco il video ufficiale, con la bella Nadine che occhieggia sullo sfondo:

ma gustatelo anche dal vivo – senza la Shah – dove Ghostpoet rende alla grande: qui
Altra musa che presta le sue doti vocali al nostro eroe del mese è la nuova regina del jazz, l’italo-belga Melanie De Blasio: voce di velluto e fascino da vendere; la De Blasio canta insieme a Ghostpoet il brano he dà il titolo all’album.
Infine, dà risultati eccellenti la collaborazione con Paul Smith in “Be Right Back, Movin’ House”, le cui sonorità avvicinano Ghostpoet ad un altro nostro beniamino, Fink (eccolo ancora una volta dal vivo. Non sapete chi è Fink? Mannaggia a voi! Eccovi il link alla recensione fatta a suo tempo a questo altro grande: qui! ).
Ed eccoci all’ultimo suo album, tra i più belli dell’anno che volge al termine: “Dark days + Canapès” indica già dal titolo, e dalla copertina, ove campeggia solo la scritta del suo autore su fondo nerissimo, qual è l’atmosfera predominante: i toni sono ancora più cupi, l’ispiratore è chiaramente il Bristol sound di Morcheeba e Tricky.
Atmosfere sulfuree  ed echi di un mondo sotterraneo sono sardonicamente attraversate dalla voce di Ghospoet, ancora più strascicata ed astratta, come quella di un Tom Waits del ventunesimo secolo. L’esempio più riuscito è la ballata nerissima di “Woe is Meee” che, tanto per mettere le cose in chiaro  evoca il diavolo dalla prima all’ultima strofa, con frasi cadenzate da una linea di basso semplice e geniale. “Trouble + Me”, “Freakshow” (ecco il video ufficiale), “Live > Leave” l’album è pieno di idee e suona scorrevole e mai banale dalla terrificante voce campionata che ne segna l’inizio in “One More Sip” all’ultima.
Un sintesi felice di tante tendenze e stili che sembravano destinati a non incontrarsi mai.

KATE TEMPEST

Kate Tempest - Haldern Pop Festival 2017-10

Ed eccoci al superamento dell’ultimo luogo comune sul rap: immaginate i soliti ragazzi di colore, con magliette di tre taglie più grandi, che sparano parole in slang agitando le braccia e mimando con le dita simboli riconducibili a gang di periferia di cui si è ormai perso il significato. Ecco, ora azzerate tutto e ripartite da capo. Perché l’artista hip hop che vi presentiamo è donna, bianca, cicciottella, ha i capelli rossi e la pelle piena di lentiggini, insomma il physique du role del rapper… all’incontrario.

Eppure, con la sua vocina sottile e nervosa questa ragazza colpisce al cuore al primo ascolto, perché possiede un dono raro: è convincente, di qualsiasi cosa parli. Si percepisce la verità quando Kate Tempest inizia a rappare, su basi musicali spesso cupe, disperate, senza spiragli: suoni ossessivi, che hanno una loro bellezza rovesciata perché risvegliano i peggiori incubi dell’uomo di oggi, rimandano ad una società disumana e senza cuore.

E poi arriva lei, e comincia a sparare versi come altrettante sentenze, e descrive con aria severa e pura le ingiustizie sociali, la disuguaglianza, l’egoismo di chi ci governa.
I versi della Tempest sono politici nel senso più alto, e fanno venire in mente quelle pasionarie della musica che si credevano scomparse.
C’è poco da scherzare, sembra dirci questa performer inglese: l’Europa è perduta. Gli USA, perduti. Londra,  perduta. E’ l’inizio shock di uno dei suoi brani, “Europe is lost” . Ecco il video ufficiale:

… ed eccola dal vivo in questa esibizione carica di pathos e tesa come una corda qui

Ma il suo atteggiamento di fronte a questa catastrofe culturale e umana è tutt’altro che inerte: la rapper inglese è spesso indignata, e ci trascina con lei a guardare nel gorgo nero del mondo in cui ci siamo rassegnati a vivere.
“It’s Killing Me, it’s Filling Me. I’m Vomiting”, ci urla questa ragazzina minuta e terribile dai capelli rossi dopo aver descritto gli effetti della deforestazione (è uno dei versi della splendida “Tunnel Vision”, che vi propongo in questo video con il testo, vale la pena: qui. Se volete vedere la Tempest in una performance dello stesso brano, dal vivo, eccola qui).
Dei rapper classici la Tempest ha conservato la capacità mostruosa di comporre versi metricamente incastrati alla perfezione nella base musicale, in quantità enorme, uno dietro l’altro… rispetto a loro, ha una cura delle parole che la fa assomigliare ad una poetessa che declama in ritmo, più che ad una cantante…. E l’abilità affascinante di passare in un baleno da visioni apocalittiche a squarci di poesia pura (a voi anche questa “Bad Place For a Good Time” in una versione rallentata che ne aumenta il fascino, con intarsi di pianoforte quasi jazz, davvero originale).