ARTISTA DEL MESE: ANDREA LASZLO DE SIMONE

Andrea Laszlo De Simone

Per entrare nella poetica di Andrea Laszlo De Simone e del suo disco “Uomo donna” la cosa migliore non è partire dalla musica o dalle parole, ma concentrarsi prima su tutto quello che c’è tra un brano e l’altro: l’album non contiene un solo secondo di silenzio, e gli spazi tra una canzone e l’altra sono  costellati di voci, rumori vari, jingle in sottofondo, field music e suoni di città, pezzi di telegiornale, campane e comizi in varie lingue, sirene, rumori di fabbrica e di parchi di bambini, galline chioccianti e mille altre sfumature sonore di realtà non musicale.

Questo fa risaltare i brani come in un negativo fotografico: De Simone offre all’ascoltatore un tappeto senza soluzione di continuità di suoni inarticolati, ricordi e impressioni da cui i singoli brani sorgono e prendono forme canoniche prima di sfumare e cedere ancora la scena al sottofondo onirico che è – secondo me –  il vero leitmotiv del disco.

Una scelta apparentemente eccentrica ma in realtà assai meditata, che  nega il silenzio e lo stacco anche logico tra un pezzo e l’altro e trasforma il disco in qualcosa di ancora più unitario dei vecchi concept album: una sorta di stream of consciousness  in chiave pop, un’ora e passa di viaggio nei pensieri e nella testa di questo giovane e vulcanico cantautore torinese.

E proprio all’idea del viaggio si ispira chiaramente il disco, che inizia con il rumore fortemente evocativo di un treno che parte: suono che appartiene alla memoria di ciascuno di noi e rappresenta la metafora ideale del distacco, dell’abbandono, di una corsa verso l’ignoto.

Il viaggio di cui parla De Simone è quello nei rapporti tra uomo e donna, come enunciato dal titolo del disco: l’amore dunque, ma soprattutto la fine dell’amore, la dolorosa coscienza dell’incomunicabilità di fondo tra l’universo maschile e quello femminile, mondi troppo diversi per poter condividere un sentimento anche se condannati a cercarsi, scontrarsi, ferirsi all’infinito.

E’ l’amore il protagonista del capolavoro del disco, il brano “Vieni a salvarmi”, anche se non viene mai nominato:  è l’amore (cos’altro?) che “ci rende ciechi” che “non può salvarci”, perché è un mostro che non conosce ragione, e guai a chi crede nell’amore, perché l’amore è un’invenzione.

Il testo, raffinatissimo ed elegante molto più di quanto sembri (ho letto in Internet una recensione che approfondiva le influenze tra le prime due strofe e le correnti filosofiche del Novecento: non vi riporto le dotte disquisizioni ivi contenute perché sono un uomo di buon cuore, perciò fidatevi) riesce ad essere straziante senza cadere nel patetico.

La chiave interpretativa è offerta, come in tutti i brani, dai rumori che precedono l’inizio del brano, per cui per goderselo appieno occorre partire dall’ultimo minuto del brano precedente, “Sogno l’amore”, precisamente dal momento in cui  il suono del piano elettrico sfuma in quello di una campana che batte a morto, per cedere il passo ai rumori di un parco: bambini, giostre… sembra un momento idilliaco, ma dura un attimo, perché presto vi si insinua qualche nota dissonante da cui improvviso parte l’accordo di pianoforte, triste e lento.

E’ dunque un brano sull’innocenza perduta, sulla drammaticità di chi ha sperimentato l’impossibilità di “tornare allo stato grezzo” (come i bambini nel parco) di chi ha provato sulla propria pelle quanto l’amore brucia, consuma e corrode l’anima. Non c’è salvezza per chi  si è messo in gioco: più è forte il coinvolgimento più è impossibile tornare indietro.

Il testo porta in scena la lotta drammatica tra la parte razionale, che erige difese e cerca di mantenere un impossibile controllo sul cuore, e quella sentimentale, che protesta la propria impotenza e, pur consapevole della distruttività dell’amore, chiede, anzi urla alla propria partner di tornare perché non conta quanto si rischia, non conta quanto si soffrirà: “Ma ora non importa, vieni a salvarmi”. La musica asseconda gli scoppi drammatici e disperati del testo, in una spirale senza ritorno che mette i brividi. Ecco il brano, nel video ufficiale, denso di metafore  e grondante simbolismo dalla prima all’ultima inquadratura: lascio a voi il piacere di scoprirle una per una.


Il brano successivo, “Meglio” dall’incedere apparentemente più arioso e che molto deve musicalmente agli stilemi del cantautorato anni zero alla Zampaglione-Sinigallia, è in realtà un inganno, un gioco di prestigio crudele e beffardo: se la musica e i primi secondi di cantato sembrano preludere ad un brano d’amore classico e gioioso, si precipita presto in un gorgo ancora più triste e senza speranza del precedente, e ci si trova al cospetto dello straziante monologo di chi, nella solitudine della propria stanza, rimugina sull’impossibilità di recuperare il sentimento perduto.

Si tratta di tematiche tutt’altro che originali, mi rendo conto: l’ingrediente segreto che rende ogni brano di Andrea Laszlo De Simone coinvolgente ed empatico come pochi altri autori nostrani contemporanei è quell’aria di veridicità che traspare da ogni momento.

Andrea sembra davvero soffrire, porta nei suoi brani le stimmate della vita vera, riesce a rompere il velo tra lui e i suoi ascoltatori, e pare proprio di trovarsi al cospetto di una piccola, autentica tragedia umana e personale.

Né le cose vanno meglio quando il nostro prova il registro scherzoso, perché non c’è nulla di più tragico di una persona disperata che prova a ridere in mezzo agli altri: la tematica è molto ben rappresentata dallo stesso De Simone, attore credibile e inquietante del videoclip di “Solo un uomo” che lo vede protagonista di una cena di festeggiamento con amici, persi ognuno nelle sue nevrosi e nei suoi incubi personali, che serve solo ad esaltare il suo senso di solitudine. Il ghigno finto allegro del cantautore mentre balla e i suoi scoppi di ira apparentemente ingiustificati hanno una resa notevole: che abbia un futuro anche cinematografico? Ecco il video.

Ed ecco lo stesso brano in una bella esibizione dal vivo, leggermente modificata nell’arrangiamento: QUI.

Tutto il disco è la lunga presa d’atto di una sconfitta, tanto più amara quanto più il paradiso sembrava a portata di mano, le nuvole lì, a un passo, e sembra ieri che bastava allungare una mano per essere felici davvero.

E oggi tornare sulla terra è un’esperienza durissima, perseguitati dal rimpianto, dal senso di fallimento e da una voglia di chiusura più forte di tutto: la conclusione del viaggio, introdotta dal rumore di un vento teso e gelido e da suoni che di umano non hanno più nulla, è affidata al brano-manifesto “Sparite tutti”, dall’incipit senza compromessi:

a che scopo mi dovrei conservare? Mi sento viaggiatore, mi sento di passaggio
sparite tutti, vi prego, scusate tanto ma sparite tutti
o non si salva nessuno
.

Lo sguardo al passato ormai serve solo per l’accettazione della propria incapacità, ed a rivolgersi idealmente alla donna amata con sarcasmo rivolto solo a se stesso: “Scusa, lo so che ho esagerato: le mie romantiche idee, il mio passato…”.

Nessuno spiraglio, la porta si chiude e non entrerà più nessuno: “Io sono innamorato… sparite! E ormai non serve a niente alcuna ragione. Si salvi chi può, ora, o non si salva nessuno”.

E’ il saluto di chi sta volontariamente affondando e si congeda dal mondo: il cantato cede il passo alla musica, poi questa ai rumori finali, neri e gelidi. Fine.

Forse non siamo in presenza di un nuovo Lucio Battisti, artista  a cui De Simone viene spesso accostato per il senso melodico e le costruzioni armoniche, immediate ma mai banali, ma in fondo non è così importante: Andrea Laszlo De Simone è qualcosa di diverso e unico: è “solo un uomo”.