Adoro gli artisti che si trasfigurano con la musica. Amo vederli respirare la loro arte e presentarla senza filtri, nudi e senza difese.
Ecco il vero privilegio di un fuoriclasse: non nascondersi.
Non vivere la propria arte: essere posseduti dall’arte, che ti scuote da dentro, ti porta dove vuole, ti fa perdere il controllo e ti fa fare facce buffe ma non te ne frega nulla perchè stai cantando, stai facendo l’amore con le note.
E’ successo ad alcuni grandi jazzisti, a virtuosi della musica classica (Keith Jarrett e Glenn Gould), succede ad alcuni rockers. Elisa ne era un fulgido esempio, all’inizio. Oggi è possibile vedere questa scintilla, questo fuoco che brucia nelle esibizioni della neozelandese Aldous Harding, che si trasfigura quando canta.
Non è sempre uno spettacolo pregevole esteticamente, intendiamoci: siamo più dalle parti delle Baccanti di Euripide che di Apollo, per capirci (o per confondere ancora un po’ di più le idee ).
La Harding, dopo avere esordito nel 2015 con un album intitolato con il suo nome e cognome, contenente una manciata di buone intuizioni, ha atteso due anni per regalarci uno dei lavori più interessanti degli ultimi tempi, “Party”. Un album dove si può ascoltare un approccio originale al mondo della canzone d’autore, un cantato intenso e vivo come pochi sanno donare ormai, ma trattenuto da un sincero amore per le forme tradizionali e classiche.
Il risultato è uno stile che sembra attingere a piene mani da forme senza tempo, sottoposte però ad un trattamento del tutto personale: melodie che si spezzano all’improvviso, strofe sussurrate che cedono il passo a brevi frasi urlate con rabbia o soffuse di sgomento, come se dietro la calma apparente della cantautrice si agitassero gli spettri di angosce e pathos che premono per uscire.
Il singolo di lancio del disco, “Imagining my Man”, gira in rete accompagnato ad un video studiato da qualche produttore che evidentemente ha badato soprattutto a nascondere le sue infinite contraddizioni ed il suo aspetto “dionisiaco”: vediamo la Harding, ingioiellata e truccata da gran signora, mentre viene scarrozzata da una giovane autista in giro per la città, seduta dietro a declamare i versi di un amore finito con un’enorme compostezza che, credetemi, non è proprio la sua cifra stilistica e mentale.
Il trucco riesce, perché il brano è così bello da sembrare un piccolo classico, con il pianoforte che traccia la base ritmica danzando con una chitarra acustica appena pizzicata, e quasi non ti accorgi che la bellezza prorompe proprio dalle virate inaspettate, da quegli urli improvvisi di coriste bambine o dai momenti in cui la giovane donna a metà di un riff dolcissimo declama un verso con una forza inaspettata, quasi urlando, te lo conficca nel cuore e poi riprende a cantare come prima, con un timbro bassissimo e quasi stanco, e a guardarsi attorno con aria svagata.
Il pezzo si tiene in equilibrio perfetto nonostante questa doppia anima, in un modo che ha del miracoloso, e chiude con un sorprendente tributo alla musica d’epoca perché è affidato al timbro caldo e suadente del clarone , strumento non proprio usuale dalle parti del rock (i jazzofili lo ricorderanno, praticamente inventato e suonato quasi in esclusiva, ahimé molti anni fa, dal grande Eric Doplhy).
Continuando il viaggio attraverso questo splendido disco, la vera Harding esplode in tutta la sua forza, non più trattenuta dal produttore, o dal suo Sper-Io: nel video di “Horizons”, dove compare ancora vestita completamente di nero (sarà un caso? L’unico essere umano che si vede oltre lei è, sia in questo video che nel precedente, un’altra donna vestita completamente di bianco, ma non voglio cedere a facili simbolismi freudiani dopo aver evocato Es e Super – Io) ed è un profluvio di facce strane, versi urlati a denti stretti ed altri lanciati con sofferenza quasi fisica (eccolo qui ).
Alla Harding non devono piacere le donne perfettine (chissà quanto le deve essere costato girare il video di “Imagining my man”), e si fa riprendere stavolta con i vestiti bagnati, i capelli appiccicati agli occhi e un impressionante trucco sotto le ciglia rosso a evocare il sangue, e non lesina smorfie e sguardi spiritati, con un’esagerazione della mimica che riporta alla mente il grande Mark Hollis dei Talk Talk (ricordate il video di “Such a Shame?” Fa nulla, ci piace così tanto che ve lo riproponiamo lo stesso: link qui).
Bene, siamo pronti ad affrontare lo “scoglio” più arduo: la Harding dal vivo.
Penserete a tratti che la ragazza è davvero un po’ disturbata, in altri avrete il dubbio che si tratti al contrario di una tecnica sofisticatissima di interpetare al meglio i brani, poi non saprete più quale delle due alternative scegliere, e rimarrete fino alal fine col dubbio si avere visto una matta o un genio… ma lo spettacolo è tra i più avvincenti che la musica attuale ci propone, e i brani sono belli, belli e particolari come lei.
L’intensità si ottiene a volte con il volume, in altri momenti con pause, silenzi, sguardi o semplicemente chiudendo id enti e lasciando filtrare una frase, un verso, come se proprompesse dalle viscere, come uomini e donne fanno quando litigano, quando saltano i filtri e si dicono cose che rimarranno nell’aria a lungo (ecco il suo concerto al “Tiny Desk”: tre brani suonati, secondo me, con inarrivabile maestria e un controllo perfetto, nonostante le apparenze suggeriscano il contrario. La Harding è vestita stavolta interamente di bianco, così come bianco latte è la sua chitarra: e allora non si può più parlare di coincidenza).
Tra un brano e l’altro, la Harding si scusa per “ciò che siete costretti a vedere”, assicurando che “serve per una maggiore resa dei brani”: è la conferma del fatto che ci sia molto più di tecnica che di disturbo in molte delle intemperanze viste, anche se è evidente che quello che si lascia affiorare non è frutto di calcolo, ma semmai di scelta di lasciarsi andare, senza freni e senza filtri, con coraggio e voglia di farsi attraversare dall’arte: una scelta di cuore e non di cervello.
La componente bambinesca e sognante prevale invece nella splendida “Party” che lascia emergere in controluce quanto la ragazza debba molto del suo stile all’altra fata-bambina del rock, l’affascinante Joanna Newsom, non a caso altra regina delle smorfie nelle esecuzioni dal vivo (qui l’esibizione live del brano “Party”. se invece volete rileggere l’articolo dedicato tempo fa a Joanna Newsom, eccolo qui); anche in questo caso abbiamo un contrappunto affidato al clarone.
Attendiamo dunque lo splendido seguito di un cd davvero interessante: ci sono tutte le premesse per assistere all’arrivo in scena di una grande artista ed una performer unica (chiudiamo con “Elation”).